“Chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa di poter sopravvivere.”
(Josephine Hart)
“Mi ha avvolta un’ondata di paure. La mia mente ha perso ogni traiettoria, la vista si è sfocata così tanto da intravedere solo il puntino della luce fredda emessa dalla vecchia lampada ambulatoriale. La gola non ha più deglutito, la parola ha lasciato spazio al mutismo più severo. E durante i successivi minuti una paralisi ha investito tutto il mio corpo e la mia anima. Emessa la presumibile diagnosi, le sue parole si erano fermate ed anche il mio cuore.
Non sarà più come prima, ho pensato.”
Esordisce, con questo monologo, l’ingresso alla prima seduta, Ana giovane ragazza di origine spagnola.
Uno sguardo assente quello di Ana, un’espressione altalenante tra l’inquieto e il remissivo. Uno stato d’animo che oscilla tra la disperazione e la tristezza insondabile.
Il perno intorno a cui ruotano le sue brevi ma densissime parole: rappresentano lo sfondo aurorale del trauma.
La parola “trauma” ha origini greche e significa “ferita”. Affrontare un trauma di qualsiasi entità (una malattia, un incidente, un lutto, un’aggressione, un tradimento o la fine di una relazione) non rappresenta per l’umano qualcosa di semplice e sopportabile. La persona vive una spaccatura profonda tra un “prima” e un “dopo”. Un prima rappresentato da un mondo composto di routine e serenità e un dopo fatto di paure, ingiustizie e mancato controllo.
Nonostante l’essere umano affronti con un proprio corredo genetico e personale il dolore, spesso le persone che vivono tali esperienze non riescono a tirar fuori tutte le risorse che possiedono per affrontare e accettare il cambiamento.
La ragione comprende alcune dinamiche, ma non tutti i varchi le sono aperti.
Chi sperimenta un trauma, come la giovane Ana, si trova a sviluppare un Disturbo post-traumatico da stress (DPTS).
La paziente è tormentata dal ricordo di quella visita specialistica e dai giorni vissuti in totale paralisi. Riferisce come emozioni quali la paura, la rabbia e il dolore, sono spesso presenti sotto forma di incubi, immagini e flashback.
Ana, vive un presente modellato sul ricordo passato. La sua vita non è più la stessa e lei cerca di difendersi . Cerca di controllare quello che sente, purtroppo aumentando la perdita stessa del controllo.
Generalmente quando viviamo emozioni dolorose non abbiamo alcuna curiosità al riguardo. Non sentiamo alcun desiderio di avvicinarci, di accettarci e di vedere di cosa sono fatte. Non abbiamo alcun interesse ad imparare da esse. Unico bisogno: dimenticarcene o sbarazzarcene il più in fretta possibile.
Nel caso del disturbo post traumatico da stress, che si differenzia da altre problematiche (in quanto la persona ha realmente vissuto un evento che mina la percezione della sua vita), sembra che il fatto di sviluppare o meno un disturbo dipenda proprio da come la persona reagisca nell’affrontarlo ossia da quelle che sono state definite modalità “coping reactions”( Nardone, Cagnoni, Milanese 2008). Tali modalità di comportamento possono essere raggruppate in:
– Cercare il controllo dei propri pensieri e annullare l’esperienza traumatica. Le persone ostinatamente vorrebbero ignorare quel trauma e tenere sotto controllo le sensazioni ad esso connesse ma niente di pù deleterio per la propria mente- “tutti coloro che vogliono dimenticare il passato si costringono a tenerlo ben in mente”.
– Richiedere aiuto, rassicurazioni e lamentele
Le persone che hanno vissuto un trauma, cercano spesso sostegno e richiedono conforto agli altri, ma senza saperlo mettono in atto un comportamento disfunzionale.
In quanto se all’inizio la risposta emotiva imminente è sempre positiva, con il ripetere del copione peggiora la situazione, tutte le volte che si delega agli altri la gestione delle nostre paure o del nostro dolore creiamo una stampella da cui dipendere e riduciamo sempre più la propria autonomia e le proprie risorse. “E’ più comodo appoggiarsi ad altri che faticare per stare in piedi da solo”.
– Evitamento di tutti quei contesti collegabili al trauma
La maggior parte delle persone che hanno vissuto un trauma cercano di evitare tutti i luoghi o le situazioni che ricordano l’evento traumatico come se tenerlo lontano ne estinguesse il ricordo. L’effetto controproducente risulta essere quello di limitare in modo importante la propria vita, fino al punto che anche i luoghi considerati prima neutri finiscono per essere percepiti come luoghi pericolosi.
Chi come Ana, ha sofferto un trauma vive costantemente una situazione di allerta e un disperato bisogno di aiuto, senza saper attuare da sola il più piccolo cambiamento. Con lei fin dalla prima seduta la comunicazione è ricca di complicità emotiva “Ana, comprendo quello che stai vivendo…”, “Il fatto è che vivere una vita umana piena significa sperimentare l’intera gamma delle emozioni, non solo quelle piacevoli”; il dialogo terapeutico è condotto come una vera guida che si basa sul fidarsi e affidarsi. Per poi giungere al momento risolutivo del nostro incontro con quella che rappresenta in terapia breve strategica la manovra decisiva per lo sblocco del Disturbo Post Traumatico da stress: il Romanzo del trauma (Cagnoni, Milanese 2009).
“Ana, da oggi ti chiedo di fare tutti i giorni un compito che ti sembrerà una vera tortura, però devi armarti di grande coraggio ed eseguirlo. Ti invito a scrivere quotidianamente una sorta di racconto che riguarda il trauma vissuto.
Ogni giorno cercherai di ripercorrere quei terribili momenti vissuti scrivendoli nel modo più dettagliato possibile, dalle immagini più definite ai suoni più lontani, dalle sensazioni più riconosciute ai pensieri più irritanti. Ogni giorno dovrai cercare di aggiungere sempre più dettagli. Una volta scritto il racconto, non dovrai rileggerlo ma riporlo e sigillarlo in una busta e consegnarlo a me.
Ana, sai benissimo che non è solo un’atavica consapevolezza femminile o un luogo comune ma una continua conferma da parte della letteratura scientifica: le donne hanno una significativa capacità di sopportare il dolore. Sono sicura che farai del tuo meglio.”
In seduta, a questa manovra, parallelamente si chiede di smettere di parlare del trauma vissuto e di quanto questo stia ancora minando il proprio presente ( congiura del silenzio), cercando di trasportare tutta la pressione del proprio turbamento dentro gli scritti quotidiani. Tramite queste tecniche, la ferita si trasforma lentamente in una cicatrice che concede alla persona di riappropriarsi della propria vita e delle proprie risorse.
“Ana, aver dato alla tua storia un nome ti ha aiutata a separarti da essa, ti ha consentito a fare un passo indietro per avanzarne due in avanti e vederla per quello che è: una sequenza di immagini e di pensieri dolorosi che ormai sono chiusi a chiave nello scrigno del tuo passato”.