“Due occhioni da cerbiatto indifeso cercano la mamma, si attaccano a lei e con voce sottile e tremolante dicono :

Mamma ho paura!

Paura di cosa? Dei mostri.”

Tutti i bambini attraversano periodi caratterizzati da paure. Le paure sono “sane” e aiutano i bambini a risolvere problemi correlati al loro sviluppo. D’altra parte, richiamano anche l’attenzione dei genitori sugli sforzi fatti dai bambini nel processo evolutivo e li spingono a sostenerli in modo funzionalenei momenti in cui ne hanno più bisogno. Come suggerisce Maxwell Maltz in uno dei suoi scritti “Un essere umano agisce, sente e si comporta in conformità a ciò che egli immagina essere vero riguardo a se stesso e al suo ambiente”.

L’intervento indiretto finalizzato ad affrontare le paure manifestate dai figli nella prima infanzia presenta evoluzioni terapeutiche importanti negli ultimi 10 anni del mio lavoro con le famiglie.

Leone, un bambino di 10 anni, era stato segnalato come bambino con paura dei mostri e continui dubbi sul cambiamento metereologico. Secondo il racconto della madre, il figlio presentava delle grosse difficoltà tutte le mattine quando allo sbirciare fuori dalla finestra della cucina, impiegava circa dieci minuti per accertarsi delle condizioni metereologiche, ponendo milioni di domande su quella che sarebbe stata la condizione climatica della giornata. A seconda delle previsioni- si imbronciava, diventava triste/preoccupato e piangeva. Il bambino chiedeva sempre conferme alla madre, la quale “bonariamente” cercava di rassicurare il figlio ma senza alcun risultato. Inoltre al calar della sera quando Leone si accingeva ad andare a letto, prima di addormentarsi passava molte ore in preda a fantasie di mostri che lo spaventano moltissimo.

La signora Marina durante il suo racconto narrava che suo figlio aveva subito un’ustione di III° grado lo scorso anno e, da quell’evento, reagiva ad ogni richiesta/capriccio del figlio in modo decisamente morbido e accomodante, sia lei che il marito.

Marina, con occhi colmi di lacrime scandiva sillabe dolorose in modo lento e tremante… riferendo che quell’episodio vissuto insieme al piccolo proprio durante la preparazione della pappa, aveva un ricordo così “bruciante” che non vi era ustione più dannosa che potesse contenere un passato così angoscioso emotivamente.

Tra una lacrima e l’altra, cercavo spazio tra i silenzi del dolore di Marina spiegandole che quando soffriamo, dobbiamo essere gentili con noi stessi. Per la maggior parte delle persone, l’impostazione mentale di default è quella di essere duri, giudicanti, di non prendersi cura di sé o di criticare accuratamente se stessi (soprattutto quando si crede di essere stati noi gli artefici di tale scarto di realtà).

“Tutti siamo consapevoli che rimproverarci non serve, ma questo non impedisce di farlo.”Abbiamo quindi bisogno di imparare l’arte della resilienza (in termini di flessibilità e adattabilità) verso noi stessi e di trattarci con gentilezza e dolcezza. Abbiamo bisogno di imparare ad offrire a noi stessi sostegno e consolazione per gestire efficacemente i pensieri e le emozioni dolorose poiché esse abbiano un impatto ridotto sulle nostre vite.

La signora Marina, più volte definiva la sua mente  “una continua tempesta”… proprio al riguardo le ribadisco che – quando le ondate di emozioni dolorose si infrangono nel nostro corpo e i pensieri amari soffiano violenti nelle nostre menti non c’è altro che possiamo fare se non cercare disperatamente di salvarci evitando di annegare. Così, quando quella burrasca ci investe, dobbiamo gettare l’ancora e piantarci forte al terreno, in modo da poter agire efficacemente. Gettare l’ancora non fa cessare la tempesta: ci tiene soltanto fermi, finchè con il tempo la tempesta passi.

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Dal nostro incontro apparve subito chiaro che le soluzioni utilizzate non erano adeguate e che si doveva intervenire in modo tempestivo su di esse.

A tal riguardo appariva fondamentale distinguere il comportamento dei genitori

1) durante le continue domande di Leone e durante la situazione da lui temuta

2) al di fuori di queste situazioni

altresì definire le soluzioni disfunzionali adottate fin’ora per cercare di risolvere i problemi di Leone:

  • spingerlo a non guardare fuori dalla finestra
  • cercare di tranquillizzarlo, proteggerlo, rassicurarlo soprattutto fisicamente (abbracciandolo e portandolo al riparo lontano dalla finestra) utilizzando un tono di voce calmo e affettuoso nelle continue risposte.
  • accontentare ogni sua richiesta rispetto alla sua paura dei mostri

In seduta le prescrizioni proposte alla signora miravano a rielaborare il rapporto tra madre-figlio rispetto al problema.

Ogni volta che Leone avanzava un dubbio o una paura la madre era pronta a rispondere ad ogni richiesta e a tranquillizzarlo. In primo luogo fu chiesto alla signora Marina di osservare senza intervenire. In secondo luogo si spiegò che era necessario – tutte le volte che Leone chiedeva aiuto ponendo mille domande – lei doveva rispondere non rispondendo. Ovvero, se il bambino le avesse chiesto <<Mamma, oggi pioverà o non pioverà?>> Marina avrebbe dovuto rispondere <<Leone visto che oggi è carnevale puoi anche vestirti da Giuliacci>>.  La signora Marina, in questo modo non avrebbe subito l’effetto di spazientirsi ma avrebbe dato inizio ad una sorta di gioco: con l’obiettivo  in primis  di sdrammatizzare la situazione di fronte a risposte “assurde” e in secondo luogo gradatamente far stancare Leone nel porre domande.

La volta successiva la madre raccontò che Leone era rimasto molto sorpreso dalle sue creative risposte, tanto che aveva diminuito in modo importante i dubbi sulla condizione climatica.

Chiesi alla signora Marina di continuare in quella direzione visto i successi rivelati e proposi- insieme al figlio Leone- tutte le sere, una volta a letto, di prendere carta e penna e scrivere o disegnare su un foglio tutte le sue fantasie e tutti i brutti pensieri rispetto ai mostri che gli ricorrevano in mente, cercando di esasperarli. Leone, sgranando gli occhioni, rimase talmente stupito da tale richiesta che iniziò fin dal nostro incontro a disegnare su un foglio i suoi draghi sputa fuoco.

Si concluse il trattamento spiegando alla madre e al bambino che non erano state compiute alcune magie ma che gli “esercizi” erano serviti per far cadere le tentate soluzioni di entrambi, risoluzioni che avevano aumentato il problema.

Sottolineai alla signora Marina come spesso l’aiuto non aiuta. Proprio in casi come questi aiutare si traduceva in danneggiare ulteriormente l’autonomia del proprio figlio- in quanto “tenerlo in una gabbia d’orata” annullava le proprie capacità personali. Mi congratulai con Leone per essere stato così bravo nell’eseguire i suoi compiti e lo invitai a farsi incidere sul braccialetto che indossava per proteggere le cicatrici dal sole: Leone, cuor di leone!